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Bottiglie di plastica riempite di sabbia per le case dei Saharawi

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Nei campi profughi Saharawi nel deserto del Sahara algerino l’approvvigionamento idrico è un problema e avviene con autobotti o con la distribuzione di bottiglie di plastica, Foto: Mostra-Reportage “Il Rosa del Deserto” di Michele Novaga e Enrico Fovanna

Per chi vive da rifugiato nel più inospitale dei deserti, quelle bottiglie di plastica rappresentano la sopravvivenza. I quasi 150.000 profughi saharawi che dal 1975 vivono in cinque immense tendopoli del Sahara algerino nei pressi della città di Tindouf, fuggiti lì a seguito dell’occupazione del loro paese – il Sahara Occidentale – non ne possono infatti fare a meno date le temperature che di giorno arrivano fino a 50 gradi. Bottiglie il cui smaltimento rappresenta un problema per le condizioni estreme in cui sono costretti a vivere nonostante la comunità internazionale cerchi di alleviare le loro sofferenze con la distribuzione di aiuti umanitari. Non solo cibo e medicinali: tra gli aiuti anche l’acqua che l’Alto commissariato Onu dei profughi (UNHCR) recapita ogni settimana in ogni tenda (chiamata Jaima in Hassania, la lingua dei Saharawi) per mezzo di autoclavi ma che spesso non è sufficiente anche per lavarsi e cucinare.

Ma a sottrarre le bottigliette all’ambiente e convertirle in uno strumento utile al suo popolo ci ha pensato Tateh Lehbib dalla nascita profugo della tendopoli di Auserd che ha cominciato a raccoglierle e a riempirle di quell’elemento naturale che più di ogni altro abbonda in quel luogo: la sabbia. E così granello dopo granello riempiendo 6000 bottiglie Tateh, ingegnere specializzato in energie rinnovabili e con un master in efficienza energetica conseguito in Spagna, grazie anche ai 250 euro vinti ad un concorso di innovazione a Ginevra, ha costruito una casa circolare per sua nonna.

Un prototipo che ha avuto un seguito tanto che oggi sono 25 le case costruite con questa tecnica: l’UNHCR (l’Alto commissariato ONU dei profughi) ha messo a disposizione dei fondi per costruire altre 25 di queste abitazioni destinandole alle famiglia più vulnerabili delle cinque tendopoli che compongono l’esilio dei Saharawi. «All’inizio i rifugiati rifiutavano l’idea di una casa perché, nonostante viviamo in questo luogo da profughi ormai da oltre 40 anni, continuiamo a pensare di essere qui ancora per breve tempo e che quindi non vale la pena costruire qualcosa di definitivo. Una mentalità che condivido anche se voglio vivere degnamente» ha dichiarato Tateh che è diventato il protagonista di un documentario intitolato “El loco del desierto” (Il matto del deserto) diretto dalla regista spagnola Julieta Cherep.

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Tathe Lehbib, ingegnere Saharawi costruisce case con bottiglie di plastica riempite di sabbia e poco altro, Foto: @Sandships/twitter

Le case di Tateh hanno un diametro di 4 metri e riescono al proprio interno a mantenere una temperatura di tre gradi più bassa grazie proprio alla plastica che funge da isolante termico. Possono resistere più facilmente alla forza delle tempeste del deserto e anche alla pioggia che negli ultimi anni in due occasioni distinte è caduta copiosa creando vere e proprie alluvioni mai viste da queste parti prima di allora che hanno spazzato via le tende e tutto quello che incontravano.

«Io cerco di migliorare la vita del mio popolo e di alleviarne le sofferenze creando cose semplici con quello che abbiamo a disposizione (sabbia e pietre). Ci sono molte famiglie Saharawi che sono state separate dalle proprie famiglie a causa della guerra e dell’occupazione illegale del nostro paese. Spero che tutti i rifugiati possano avere una vita degna: è un diritto umano fondamentale», chiosa Tateh.


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