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Il permafrost si sta riscaldando e fa spostare le montagne

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Il permafrost è un fenomeno termico caratteristico dei climi freddi. A livello globale si stima che occupi fra il 20 e il 25% della superficie delle terre emerse, di cui 6–7% nelle regioni di montagna mentre il resto é concentrato nelle zone artiche e subartiche. Parlando con il geomorfologo alpino Cristian Scapozza che da oltre un decennio con il suo team della SUPSI, la Scuola universitaria professionale della Svizzera italiana di Lugano ne studia l’evoluzione e gli spostamenti  abbiamo voluto approfondire quanto il riscaldamento globale incida sulla sua degradazione.

Il ghiacciaio roccioso di Stabbio di Largario in Svizzera

Foto: Michele Novaga

Che cos’è il permafrost? Che tipo di fenomeno è?

Il permafrost è una parte della superficie terrestre, che può essere suolo, detrito o roccia, la cui temperatura rimane al di sotto di 0°C per almeno due anni consecutivi. In altre parole, è un terreno gelato in permanenza. Si tratta di un fenomeno esclusivamente termico, perché nella definizione non è presente la parola “ghiaccio”. È però evidente che, se non mi trovo in un clima completamente arido e se il mio materiale riesce a contenere una certa quantità di acqua, la temperatura negativa implica il congelamento dell’acqua e la formazione di ghiaccio.

Qual è la differenza tra ghiaccio dei ghiacciai e permafrost?

Il ghiaccio di un ghiacciaio si forma dal lento accumulo e dalla compattazione di strati annuali di neve. In gergo specialistico lo definiamo “ghiaccio sedimentario”, ed è necessario un tempo di trasformazione della neve in ghiaccio che può durare anche decenni. Il ghiaccio del permafrost è al contrario formato direttamente dal congelamento di acqua proveniente dalla fusione del manto nevoso o da precipitazioni meteoriche. Soprattutto in alta montagna, dove piccoli ghiacciai e permafrost hanno potuto alternarsi nella stessa posizione a seconda delle fluttuazioni climatiche, non è però raro trovare nel permafrost anche del ghiaccio sedimentario.

Il riscaldamento del permafrost fa spostare le montagne?

Essendo un fenomeno termico, il permafrost è direttamente influenzato dal riscaldamento delle temperature, che possono degradarlo fino a farlo scomparire, causando uno decongelamento del terreno. Laddove è presente del ghiaccio, l’avvicinarsi della sua temperatura agli 0°C e la presenza di acqua liquida favoriscono un incremento della sua capacità di deformarsi. Il ghiaccio, diventando maggiormente plastico, favorisce il movimento dei detriti dove esso è contenuto o lungo i giunti di un ammasso roccioso. Il riscaldamento del permafrost può quindi condurre a un’accelerazione dei movimenti dei ghiacciai rocciosi o a un aumento della frequenza di piccoli crolli di roccia.

Misurazioni della SUPSI sul ghiacciaio roccioso

Foto: Michele Novaga

 

I ghiacciai e le montagne si spostano: in che misura il riscaldamento del permafrost ne è causa?

Come detto sopra, il riscaldamento del permafrost è la causa di un aumento della velocità di spostamento dei ghiacciai rocciosi e della frequenza di crolli di roccia. Può quindi favorire il trasferimento verso valle di ingenti quantità di detriti rocciosi per opera di altri fenomeni, come colate, flussi di detrito o valanghe di neve. Non ha però un effetto né sul movimento dei ghiacciai – che è dovuto essenzialmente al loro stesso peso, alla gravità e alla presenza di acqua liquida alla loro base – né sul lento movimento delle catene montuose, che è piuttosto di origine tettonica. Anche il ruolo del permafrost nell’innesco di grandi valanghe di roccia è dibattuto. Nel caso di questi fenomeni di volumetrie superiori a un milione di metri cubi, la degradazione del permafrost può esserne una concausa, ma ne è raramente il fattore scatenante principale.

Lei e il suo team della SUPSI dal 2009 misurate la temperatura del suolo e lo spostamento di sette ghiacciai rocciosi distribuiti nelle Alpi Ticinesi. A che conclusioni siete arrivati?

Solamente negli ultimi due anni, la temperatura media del suolo ha subito un riscaldamento compreso fra 1.70 e 2.71°C a causa del periodo caldo di inizio agosto 2018 e, soprattutto, dell’anomalia positiva dell’estate 2019, invertendo brutalmente la leggera tendenza al raffreddamento che si era osservata nel biennio 2016-2017. Sull’insieme del periodo di osservazione, il riscaldamento della temperatura del suolo nel decennio 2010-2019 è stato fra 0.8 e 1.1°C.

Il riscaldamento della temperatura ha provocato una nuova significativa accelerazione della velocità dei ghiacciai rocciosi, simile a quella osservata nel 2015. È stato affinato anche il ruolo dell’acqua liquida nell’incrementare le velocità di un ghiacciaio roccioso, poiché sia i modelli sia le osservazioni confermano che i valori più elevati di velocità si riscontano durante estati calde che seguono un inverno nevoso. L’innevamento abbondante durante l’inverno e l’inizio della primavera si traduce infatti in una riserva idrica abbondante al momento della fusione nivale a primavera inoltrata e durante l’estate. I dati dettagliati saranno presto pubblicati nel consueto rapporto biennale presentato nella rivista scientifica Bollettino della Società ticinese di scienze naturali.

Cristian Scapozza, geomorfologo alpino

Foto: Michele Novaga

Il problema riguarda anche tutte le Alpi in generale: da quelle italiane alle francesi alle austriache.

Certo. La situazione nelle Alpi ticinesi non ha nulla di eccezionale. L’evoluzione del permafrost che osserviamo al Sud delle Alpi svizzere è perfettamente in linea con quanto avviene sia nel resto della Svizzera sia nell’insieme delle Alpi. La collaborazione in questo campo è molto stretta. I dati ticinesi sono sistematicamente integrati sia a livello nazionale (con la rete di monitoraggio del permafrost PERMOS della quale la SUPSI fa parte) sia internazionale, in particolare nell’ambito della ricerca sulle Alpi o sulle zone fredde del pianeta. Si tratta poi di dati pubblici, che sono a disposizione di tutta la comunità scientifica proprio per far fronte in maniera congiunta a una problematica comune.

Qual è il rischio degli spostamenti dei ghiacciai rocciosi?

Lo spostamento di un ghiacciaio roccioso non costituisce un rischio in sé. La loro accelerazione può però portare a parziali collassi di parte dei detriti e del ghiaccio o fornire ingenti volumetrie di materiale detritico che possono essere in seguito mobilizzate dall’acqua, dalla neve o semplicemente crollare a valle se la topografia del versante lo permette.

Cosa dovremmo attenderci per l’immediato futuro?

La tendenza a medio-lungo termine è chiara ed è quella di un progressivo riscaldamento del permafrost. L’aumento della frequenza dei periodi canicolari estivi potrà poi accelerare questo riscaldamento, poiché questi periodi coincidono spesso con quelli dove non è più presente l’effetto tampone della neve al suolo. Più difficile da stimare è la variabilità futura dell’innevamento, che può condizionare in maniera importante l’evoluzione di un ghiaccio roccioso a corto termine: la presenza della neve al suolo in periodi di temperature dell’aria estremamente elevate, da una parte inibisce la trasmissione di calore nel sottosuolo; dall’altra, la sua successiva infiltrazione sotto forma di acqua liquida nel periodo di fusione ne favorisce il riscaldamento.

Cosa possiamo fare per salvare il permafrost?

Pensare di arrestare la tendenza al riscaldamento in atto è, oggi, qualcosa di utopico. Dobbiamo però iniziare seriamente ad applicare quelle misure individuali e collettive di risparmio energetico e drastica riduzione, riducendole praticamente a zero, delle emissioni di gas a effetto serra, in modo da arrestarne l’aumento delle loro concentrazioni entro 20 anni e mitigare in parte il riscaldamento climatico contenendolo entro i 2°C di aumento rispetto ai livelli preindustriali. Seppur drastico, è importante che a livello individuale e come collettività ci rendiamo conto che questa non è la soluzione migliore che possiamo adottare, ma piuttosto è l’unica che può ancora avere una certa efficacia. Per ritornare al permafrost, pur considerando lo scenario climatico più conservativo e che prevede il minimo aumento di temperatura (+1.1°C fra il 2018 e il 2035), un nuovo modello basato sull’apprendimento automatico ha calcolato una riduzione della superficie potenzialmente occupata dal permafrost di circa la metà nell’insieme delle Alpi Ticinesi.

Una misurazione della Supsi sul ghiacciaio roccioso nel Canton Ticino

Foto: Michele Novaga


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