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Africa e Coronavirus: una pericolosa bomba a orologeria

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Nel mondo i contagi da Coronavirus aumentano ogni giorno di più. Le cifre parlano già di oltre tre milioni di casi accertati e oltre 250.000 morti. Una strage che sembra non aver ancora toccato il continente che forse fra tutti è quello meno preparato a reggere a un’ondata come quella del Covid-19 e cioè l’Africa. Un continente di cui si parla sempre poco, ancora meno in questo periodo in cui ogni paese deve fare i conti con i propri problemi.

Il continente africano alle prese col Coronavirus

Guglielmo Micucci, direttore di Amref

Foto: Amref

Qui i casi sono ancora marginali rispetto alle medie di altri paesi. «I dati ad oggi parlano di un numero superiore ai 30.000 che però va proporzionato al continente africano e messo a confronto con i dati europei e americani – racconta a Wise Society Guglielmo Micucci, direttore di Amref Italia, organizzazione non governativa che dal 1957 è impegnata in Africa – A differenza dei sistemi sanitario occidentali che permettono un tracciamento attraverso tamponi, in Africa questo non c’è. Possiamo immaginarci che i numeri siano ben diversi rispetto a quelli certificati e, per come è strutturato il continente, non si riesce in alcun modo ad avere una lontana percezione di quello che potenzialmente è il vero contagio: i paesi fanno 40/50 tamponi al giorno magari su una popolazione di 15/20 milioni di abitanti (chiaramente dipende dai paesi) ci rendiamo conto come il monitoraggio dei contagi sia nullo. In Sudafrica dove operiamo, i contagi sono di più perché in quel paese, come in altri paesi nel Nord Africa, ci sono sistemi sanitari un po’ più solidi di altri e così si riesce di più a identificare i contagi».

Tra l’altro la mancanza di strutture e mezzi deve fare i conti anche col fatto che, alcune somiglianze tra le caratteristiche del Covid-19 e di altre epidemie come le polmoniti molto comuni in Africa, non hanno fatto capire subito che si trattava di Coronavirus esattamente come accaduto in Italia e in Occidente in generale. «Se in Italia è stato difficile all’inizio identificare i primi casi di Coronavirus, lì lo è stato ancora di più. E ci si può immaginare quanto possa essersi già diffuso il virus in tutto il continente africano», aggiunge Micucci.

I flying doctors di Amref

Foto: Amref

In Africa la bomba Covid-19 pronta ad esplodere

Un problema, quello di questo virus, che si somma ad altri problemi e ad altre malattie che affliggono atavicamente l’Africa: come l’Hiv, come l’Ebola. «Da una parte per alcuni paesi è tra virgolette un vantaggio perché l’aver combattuto Ebola da a quei paesi colpiti una maggiore sensibilità a queste malattie e una maggiore cognizione del problema. Dall’altro lato Ebola è l’esempio del rischio enorme che i paesi affrontano in cui la prima categoria a essere coinvolta è quella degli operatori sanitari, i primi che vengono a contatto con i contagiati spesso senza dispositivi e spesso senza formazione. Del resto è successo anche in Italia dove sono già centinaia i medici e gli infermieri morti. Un esempio emblematico – continua il direttore di Amref Italia – è il Sud Sudan: il primo caso risale a dieci giorni fa con oltre un mese abbondante di ritardo rispetto ad altri pesi ma sappiamo bene che il primo contagio è molto precedente in un paese in cui la terapia intensiva non esiste. Un paese con 14 milioni di abitanti e 4 milioni di sfollati interni: questo ci fa pensare che, soprattutto in situazioni come quelle dei campi profughi, anche un solo caso che ha bisogno di sostegno in terapia intensiva, morirebbe. Una bomba sanitaria che potrebbe esplodere da un momento all’altro».

La risposta di Amref per proteggere gli africani

«Tra le varie attività che abbiamo intensificato e rafforzato ci sono quelle idriche in Kenya Etiopia e Sud Sudan riabilitando vecchie fonti di acqua ma aumentando il numero dei punti d’acqua siano essi pozzi o altro. Luoghi di aggregazione in cui convergono anche migliaia di persone alla volta: ecco perché per agevolare il distanziamento sociale ne servono di più per evitare assembramenti e problemi. Molti dei nostri interventi sono in ambito formativo: grazie a delle piattaforme online abbiamo formato oltre 50.000 operatori sanitari inserendo anche un protocollo Covid per lavorare a distanza e formarli sulla nuova epidemia come abbiamo fatto anche in Uganda e Zambia. Abbiamo attivato i Flying doctors, i nostri fmosi dottori volanti, per le prime evacuazioni all’interno in Kenya a causa della chiusura delle frontiere. E poi lavoriamo sul trasporto dei tamponi dato che l’unico posto dove viene fatta l’analisi è a Nairobi dove c’è un nostro laboratorio. Poi abbiamo attivato gli operatori sanitari nei villaggi per la distribuzione dei dispositivi di protezione individuale. Negli slums, anche grazie all’Onu, abbiamo attivato la distribuzione di kit igienici data la grande concentrazione di centinai di migliaia di persone in spazi ridotti. Tutta la nostra macchina organizzativa ha dovuto trasformarsi anche perché questa situazione durerà presumibilmente ancora tanto».

Il rischio di una deriva sociale

Tuttavia un altro pericolo che il Covid-19 può portare in Africa non è solo di carattere sanitario ma sociale. «I lockdown in Europa e Occidente permettono di chiudersi in casa con tutte le difficoltà del caso anche se ciò fa emergere problemi di povertà. Ma almeno c’è uno stato sociale che può dare dei sostegni, offrire una situazione igienica ottimale. In Africa la gente lavora spesso alla giornata, non c’è accumulo di risparmio e se un capofamiglia quel giorno non lavoro la sua famiglia non mangia. La vera bomba, se anche qui il lockdown durasse a lungo, pronta a esplodere è quella sociale» conclude il direttore di Amref.

L'attore Giobbe Covatta con alcuni bimbi in Africa

Foto: Amref


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